La domanda primordiale è: "Che cosa sono io per te?".
Questo è l'interrogativo attraverso il quale il desiderio umano mostra la sua dipendenza strutturale dal campo dell'altro e dalle sue risposte. Sullo sfondo di tale dialettica, tra l'altro e il soggetto, si instaura la domanda d'amore. Che cos’è la domanda d'amore? La domanda d'amore poggia sul soddisfacimento del bisogno. Una parte del bisogno rimane sempre insoddisfatta, ad esempio: il bisogno di fame può lasciare insaziati, in quel caso siamo insaziati da qualcos’altro, non dal cibo. Rimanendo il bisogno insoddisfadicibile per natura umana (questa condizione riguarda solo gli esseri umani); vela una ricerca diversa, quella degli oggetti che soddisfano la pulsione, il desiderio. La parte di bisogno che rimane insoddisfatta appartiene all’ordine del desiderio. Anche qui però incontriamo un gap. Il gap che incontriamo è quello che ci porta a cercare l'oggetto del desiderio all'esterno anziché all'interno.
In Pulsioni e i loro destini (1915), all'interno di Progetto di una Metapsicologia, Freud ci dice che l'oggetto del desiderio si trova all'interno di noi stessi, siamo noi stessi. Questo gap è un gap, paradossalmente, fortunato, in quanto non satura il campo del desiderio. E finché il campo del desiderio non è saturato, siamo vivi. Finché i nostri bisogni rimangono insoddisfatti ci accorgiamo di avere dei desideri e finché desideriamo, viviamo.
Lo scrittore norvegese Jostein Gaarder scrive: "Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre". Oltre. Oltre cosa? Oltre il pane. Il solo pane. La domanda d’amore è che non si vive di solo pane, di solo bisogno. Non c'è risposta giusta alla domanda, risposta che esaurisca la domanda, una domanda comporta sempre un’altra domanda e finché questa catena rimane attiva, c’è vita. Pensiamo che debba essere l'altro a rispondere ai nostri bisogni, ai nostri desideri, ma egli non può rispondere, perché anche lui è portatore di una domanda, della sua domanda d’amore. Questo fa sì che ci sia sempre una differenza tra il soggetto e l'altro. E’ questa differenza, ineliminabile strutturalmente, che si sogna di eliminare ammalandosi (Freud diceva ammalandosi di nevrosi). L'incontro con l’altro è sempre un incontro di domande. Questo è l'unico incontro possibile, quello che avviene nel dolore rispetto al fatto che l’altro non potrà rispondere esaurientemente alla nostra domanda d’amore, alla nostra domanda primordiale. Rispetto al “chi sono io per te?”, l’altro, che sia un genitore, che sia un partner, che sia un amico; non potrà mai rispondere in modo definitivo e compiuto.
Ci sarà sempre qualcosa che di quella domanda sfuggirà al tentativo del soggetto di farsi istituire una volta per tutte. La risposta a quella domanda, da parte dell’altro sarà sempre differita, non complementare, incompleta. Jacques Lacan lo chiamava il "dolore di esistere" (Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, 1957 - 1958). È questa la felicità. Paradossalmente non esiste felicità se non nella contingenza di questo incontro. Se nel campo dell'immaginario e del simbolico abbiamo l'illusione di un soddisfacimento dei bisogni – il bambino piange e la madre risponde con la pappa, in maniera complementare -, nel campo del desiderio abbiamo un incontro. Nel desiderio incontriamo l'essere umano. Aproposito del vizio del gioco d’azzardo di Dostoevskij, Freud afferma: “innumerevoli volte aveva promesso o dato la sua parola d’onore alla giovane moglie di non giocare più o di non giocare in quel tal giorno, e quasi sempre, come racconta la moglie, infrangeva la promessa. Quando con le sue perdite aveva gettato sé stesso e la moglie nella misera più nera, ne traeva un secondo soddisfacimento patologico. […] la produzione letteraria non procedeva mai così bene come quando essi avevano perduto tutto e ipotecato anche gli ultimi averi. […] Quando il senso di colpa di Dostoevskij era placato dalle punizioni ch’egli stesso s’era inflitto, l’inibizione che gli impediva di lavorare veniva meno, ed egli poteva concedersi qualche passo sulla via che l’avrebbe portato la successo”. Perché? Perché il successo solo dopo la miseria? Si potrebbe rispondere che solo quando non si ha niente da perdere si è veramente liberi di essere felici.
Quando l’oggetto è e rimane perduto (ho perso tutti i miei averi), la pulsione è sfiancata dal movimento ripetitivo per trovarlo all’esterno (il gioco d’azzardo), allora lì potremmo dire di essere felici (la produzione letteraria si produce). Io credo che ci voglia molto coraggio per addentrarsi in questo campo. Quando si comincia ad avere a che fare con la felicità, lo scoraggiamento è dietro l'angolo. La felicità è quanto di più scoraggiante possa esserci per l'essere umano dato che la si intende come un traguardo da raggiungere, come un qualcosa che cade dal cielo, un giorno x. Ebbene questa x, non è una x da poco. È il mistero dell'altro che abbiamo detto essere ineliminabile per la sopravvivenza della nostra umanità. Direi, per la nostra felicità. È vero che il senso di colpa di Dostoevskij era placato, ma a un caro prezzo, quello delle punizioni che egli stesso si era inflitto. C'è sempre qualcosa al prezzo di qualcos'altro, c'è sempre un dolore, una mancanza, una perdita, una malinconia; nell'esistenza, Ebbene, è questa la felicità.
Dott.ssa D’Acuti Arianna
Psicologa clinica e Psicoterapeuta psicoanalitica Avellino
Psicologa clinica e psicoterapeuta psicoanalitica a Avellino (AV)
Iscrizione Albo n. 22298
P.I. 14706721009