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Psicologa clinica e psicoterapeuta psicoanalitica

Dott.ssa D’Acuti Arianna

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Voglio un figlio, solo così mi sentirò realizzato/a

Il marchio filogenetico e culturale preme dentro di noi: non siamo nessuno se non abbiamo figli. Nel tempo passato una donna che non poteva avere figli era una donna di second’ordine (il marito poteva rinnegare la moglie se questa non procreava). La legge 194, del 1978 sancisce che sia la sanità pubblica a rispondere della scelta della donna di voler essere madre oppure no (disciplina le modalità di accesso all’aborto entro i primi 90 gg di gestazione) e dunque stabilisce il “poter essere donna senza essere madre”.

La donna paga maggiormente il marchio sociale del “poter essere donna senza essere madre” (si pensi che fino a tempi recenti non si considerava la possibilità della sterilità dell’uomo) ed è la donna che, in maniera più marcata, pensa alla sua realizzazione come qualcosa che passa attraverso i figli.

Cultura o desiderio?

Entrambi, ma il desiderio di procreazione è in egual misura presente in entrambi i generi, mentre il pensiero sociale e relazionale condiziona maggiormente la donna. Le bambine vengono spronate a giocare con le bambole, incoraggiate quando giocano alla “mamma”, stimolate a mettere la maternità davanti a ogni altra cosa. Se una donna porta avanti una scelta differente, non sempre è sostenuta anzi, spesso viene scoraggiata sia in ambito familiare che in quello lavorativo. I tempi cambiano ma i meccanismi inconsci non così velocemente.

Vediamo un po’ di situazioni: se una madre si è dedicata completamente al figlio, se addirittura ha vissuto attraverso di lui – lo ha portato a fare tutto quello che lei avrebbe voluto ma non ha potuto fare – se la sua unica fonte di felicità è il proprio figlio, è molto probabile che quel figlio continui a pensarla così e, di conseguenza, nulla della sua vita avrà lo stesso valore che procreare. Potrà anche essere una professionista molto abile, avere un riscontro sociale, una buona relazione di coppia ma se dentro di lui agisce questo condizionamento, avere figli diventa un’urgenza imprescindibile. Nella fase decisionale questo condizionamento porta appunto ad un’urgenza ma non crea internamente nessun conflitto. Il problema vero è come una donna pensa al figlio: un prolungamento di se stessa piuttosto che un essere distinto da sé. È qui che nasce il problema. Le aspettative rispetto al figlio diventano eccessive ed esagerate sono anche le paure connesse: sarà bello abbastanza? Sarà intelligente? Ecc.

Lo stesso scenario si può presentare anche se una donna sista “ribellando” a sua madre, una madre che non l’ha sostenuta abbastanza, che non si è davvero dedicata a lei, che non era una “brava” mamma, glielo mostrerà la figlia, a sua volta madre, come si fa! Il pericolo in questo caso di utilizzo inconscio del figlio è altissimo, rischia di diventare una lotta tra madre e figlia, dove il bambino sarà strumentalizzato, a meno che la nuova mamma non faccia un lavoro per risolvere i conti sospesi con la propria madre in maniera costruttiva.

A volte, la fantasia di realizzare se stessa attraverso i figli, è l’unica che una donna possa avere a disposizione. Se una donna è cresciuta sentendosi poco valorizzata e stimata, se nella sua esperienza di vita è incappata spesso in insuccessi, se ha di se stessa un’opinione poco lusinghiera, è possibile che veda nel diventare mamma una possibilità di riscatto

Vale anche per l’uomo. Se un uomo ha avuto genitori che hanno vissuto attraverso lui, è probabile che andrà nella stessa direzione ma spesso, semplicemente, si aspetterà che sia la sua compagna a comportarsi così. Il riconoscimento sociale un uomo lo trova generalmente nel mondo lavorativo piuttosto che nell’essere un buon padre, ma si aspetterà che la sua compagna porti avanti questa missione. È chiaro che questa affermazione non corrisponde a verità. Oggigiorno il ruolo paterno è molto più complesso di un tempo e un padre può richiedere di assentarsi dal lavoro al posto della madre per l’accudimento del bambino, ma quanti lo fanno? E non è “colpa” dei padri, è responsabilità condivisa dalla coppia.

Ciononostante, anche nell’uomo può essere presente questa aspettativa di realizzazione, questa rivalsa – attraverso i figli – rispetto a limitazioni vissute: non sono diventato un grande manager ma tu lo diventerai; non ho sfondato nello sport ma tu ce la farai; io non ho finito gli studi e tu prenderai tre lauree e così via. In qualunque modo questo pensiero di realizzazione si presenti è pericoloso per il futuro figlio: il rischio di strumentalizzazione dei figli è molto alto. Se viviamo in un mondo proiettivo, non riusciremo a vedere davvero il bambino ma solo le nostre aspettative e i nostri sogni su di lui.

Ci sono persone che rimpiangono di non aver potuto imparare a suonare il pianoforte ma in compenso sono diventati campioni di nuoto; volevano fare gli artigiani e siedono per giorni interi ad una scrivania “sicura”; volevano andare a cavallo e per anni hanno preso lezioni di danza classica. Uomini e donne che, ormai in età più che adulta, non si sentono in grado di prendere decisioni per il timore di scontentare i genitori.

L’unica possibilità che ognuno di noi ha è di diventare davvero adulti, lavorare su ciò che a livello psicologico continua a tenerci nella condizione di figli. Le possibilità ci sono, dentro di noi ci sono risorse che se svelate possono aiutarci a crescere davvero



Dott.ssa D’Acuti Arianna
Psicologa clinica e Psicoterapeuta psicoanalitica Avellino

Dott.ssa D’Acuti Arianna

Psicologa clinica e psicoterapeuta psicoanalitica a Avellino (AV)
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